Quello del 2023 è stato il 25 novembre in cui la maggior parte delle campagne di comunicazione hanno coinvolto gli uomini nella conversazione sulla violenza contro le donne.
Lo hanno fatto pur sapendo che una buona fetta del genere maschile pensa che il fenomeno non lo riguardi - il 43% per la precisione, secondo la Survey L.U.I.
“Se non sono quello che picchierebbe e non sono quella che rischia di essere picchiata, cosa ci faccio qui?”
mi ha chiesto il partecipante di un evento che stavo conducendo. Sarebbe facile - e un po’ snob - liquidarla come una provocazione, ma la domanda è legittima.
Perché la narrazione della violenza di genere finora si è appiattita perlopiù sul piano fisico, la sua forma più visibile.
Ma che ne è del catcalling, della battuta sessista, delle micro-aggressioni quotidiane, che tendiamo a sminuire o a spacciare come complimenti o goliardia?
Ecco perché ho apprezzato molto le affissioni del Comune di Reggio Emilia, che mettono in evidenza il “lato b” della violenza.
Al tempo stesso sento anche che, come le donne hanno bisogno di role model per il proprio empowerment, gli uomini avrebbero bisogno di modelli di - permettimi la licenza poetica - “softwerment” che possano ispirarli a esprimere il proprio sé, anche quando il loro “io” esce dalle aspettative e dalle pressioni sociali.
Nel mese di novembre con Fondazione Libellula abbiamo coinvolto personaggi noti, ma anche attivisti femministi che meriterebbero di diventare altrettanto noti, nella campagna #PrendoUnImpegno. Ognuno di loro ha scelto il suo impegno personale, un piccolo mattone per decostruire il muro della violenza di genere.
E se ancora ci sarà qualcuno - ci sarà sempre qualcuno - pronto a fare spallucce con “Not all men”, ricordo che è il patriarcato a considerare “all men” uguali. Anzi, a pretenderlo. Per questo anche gli uomini dovrebbero impegnarsi a smantellarlo, come ho spiegato nel post qui sotto.
MO’ ME LO SEGNO
La rubrica in cui iniziamo a contare
Quante sono le donne nella categoria “Big” di Sanremo 2024?
9 su 31.
Le segnalazioni di questa settimana:
“Mai avrei scelto il libro di uno scrittore maschio per parlare di femminicidio. Oggi mi pare invece utile e significativo che scriva un maschio e che i maschi parlino.”
Marino Sinibaldi chiude così questa puntata di “Timbuctu”, un podcast che parla coi libri, per spiegare la scelta di una puntata su “I mangiafemmine”, testo distopico di Giulio Cavalli su una nuova maggioranza politica di una terra immaginaria che prova a legalizzare la caccia alle streghe.
I 4 componenti, #tuttimaschi, del gruppo irlandese “Girl band” hanno deciso di cambiare il proprio nome in “Gilla band” dopo aver dichiarato che la loro scelta era sta fatta in maniera ingenua, senza pensare di causare misgendering.
Immaginati di aprire la confezione di un test di gravidanza e poter leggere, di fianco alle istruzioni d’uso, le indicazioni su cosa fare nel caso volessi abortire in sicurezza. Quanto contribuirebbe a ricordarci che l’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto, e non una colpa?
Per questo l’idea proposta da un gruppo di studenti della Miami AD School mi sembra valida - così come interessante è la proposta di ridefinire una donna nelle prime 12 settimane come “potenzialmente gravida”.
I giorni tutt’attorno al 25 novembre sono stati intensi,
ma ritrovarci in così tante - e tanti - in piazza ha riacceso la speranza e dato un segnale forte perché, come riportato in questo post di Le Plurali Editrici:
“è fondamentale mostrare come in tutto il mondo (…) gli atti di resistenza attiva siano tantissimi. Il femminismo non può essere associato solo a dolore e violenza”.
A presto,
con viva e attiva resistenza,
Flavia.