Chissà quando è stato il momento preciso in cui un biglietto da visita ha smesso di essere per me semplicemente un pezzetto di carta con le informazioni essenziali per contattare una persona.
Il mio è diventato una precisa presa di posizione.
Sul linguaggio, sull’invisibilizzazione delle donne nel mondo del lavoro e sulla necessità di forzare un po’ le cose per cambiarle.
Come ho raccontato a Domitilla Ferrari in questa puntata di “Ti faremo sapere”, c’erano diverse opzioni per definire il mio ruolo.
Avrei potuto usare “Responsabile della”, oppure “Head of", e la mia scelta sarebbe stata solo di natura geografica: italiano o internazionale, qual è il pubblico a cui mi sto rivolgendo?
Entrambe le forme sono gender-neutral, non avrebbero fatto sorgere domande… E questo è il punto.
Ho pensato a quante volte ho incrociato un “capo della comunicazione” e al fatto che non mi era mai successo di stringere la mano a una “capa”.
Perché?
“Capa della comunicazione”.
Perché no?
Be’, perché mi suonava (mi suona tuttora) arrogante, a differenza della versione maschile, neutrale al mio orecchio. Qui è scattato l’allarme: se era il suono il problema - e non la grammatica - allora era una questione di frequenza di esposizione alla parola. Abitudine, insomma.
Ma se è l’abitudine il problema, io stessa potevo contribuire alla sua soluzione, decidendo di usare la parola “capa” per renderla più comune.
Ed è così che quattro lettere sotto a un nome hanno fatto la differenza.
Mi sono ritrovata più volte di fronte a una domanda che non credo venga normalmente posta a un uomo:
“Perché ti definisci capo?”
(A chi me l’ha chiesto: spero sia chiaro che non ci sono rimasta male, anzi, era esattamente il mio scopo, rendere evidente il fatto che non abbiamo familiarità con le parole empowering, anche quando siamo concordi sulla necessità di un maggior empowerment femminile)
Qualche giorno fa è uscita una mia intervista per Dealogando.
Nel carosello con cui è stata lanciata su Instagram compaiono dieci card, tutte dense di contenuto e testo. Nonostante io non appaia nella copertina, c’è chi non ha potuto fare a meno di commentare la firma - e poi dicono che la gente non legge più.
Comunque, credo ci sia un uomo che se la passa peggio di me:
il capo di gabinetto.
Una carica altisonante accostata a una bassa funzione corporea.
Un titolo che termina con uno strascico di risatine malamente soffocate.
Eppure, non mi risulta che si voglia impedirne l’uso perché “non suona benissimo”.
Capisco però la professionista che non vuole definirsi “capa di gabinetto”: per lei le battute e le denigrazioni sarebbero certamente decuplicate.
IN TEMA
A volte, comunque, i dubbi sull’utilità di tutto ciò ce li ho anch’io. Mille elucubrazioni sul job title, e poi un bambino delle elementari scrive che il lavoro della madre è l’ingegnera e l’insegnante lo “corregge”.
Non vorrei essere nei panni del mio amico che ora dovrà spiegare al figlio che effettivamente il dizionario gli dà ragione, anche se alcune persone non si degnano di consultarlo. E alcune di quelle “alcune persone” poi dovrebbero insegnare l’italiano.
Fino al 31 gennaio è aperta la Survey di Fondazione Libellula per rilevare le discriminazioni e le violenze di genere che le donne subiscono nel mondo del lavoro. Tra le domande del questionario, una riguarda proprio l’oggetto di questa newsletter: ti chiamano con il ruolo al maschile, anche se hai esplicitato di volere il femminile professionale? Puoi rispondere qui.
CHIUSA PARENTESI
La rubrica per completare le notizie delle newsletter passate.
Vedo che la pubblicità con Jeremy Allen White ha risvegliato sensi e solleticato pensieri. Ne riprendo ancora uno di quelli che mi sono arrivati, perché va a toccare una corda che finora abbiamo solo sfiorato:
“Il contesto del fisico maschile e il contesto del fisico femminile hanno due storie completamente diverse. Il corpo della donna è sempre stato venduto come oggetto.
Mi sono domandata se non fosse veramente corretto censurare, in un certo senso, la pubblicità con FKA Twigs perché non mi sembra un vero e proprio doppio standard.
Prova a immaginare, ad esempio, l’immagine di un uomo bianco nudo, a terra, con una catena al collo il cui catenaccio è tenuto da una mano. Probabilmente nel visualizzarla penseresti a uno scopo sessuale. Prova a immaginarti la stessa scena con un uomo nero; probabilmente il tuo pensiero andrebbe allo schiavismo, perché i due fisici hanno dietro una storia diversa.
Per me è lo stesso che accade per il corpo maschile e quello femminile.
Le donne hanno dovuto combattere per non essere oggettificate o sessualizzate.”
Cilly (e la fortuna di conoscere persone così brillanti)
MO’ ME LO SEGNO
La rubrica in cui iniziamo a contare
Quante sono le donne nel Comitato per organizzare la Cop29, la Conferenza sul Clima che avrà luogo a Baku, Azerbaijan, a novembre?
Le segnalazioni di questa settimana:
Ci hai mai fatto caso? Spesso le persone che tuonano “Non si può più dire niente!” sono anche quelle che vorrebbero togliere dai dizionari le declinazioni al femminile delle professioni. Non tutte, solo quelle più prestigiose a livello sociale ed economico.
Pare che siano in ascesa le influencer virtuali: totalmente malleabili, hanno meno probabilità di cadere nelle shitstorm o in problemi con gli sponsor.
Ricordo che un paio d’anni fa un imprenditore mi propose la “prima influencer virtuale italiana inclusiva”. “Perché inclusiva?” gli chiesi. “Be’, la sua non è una bellezza stereotipata, lei non è perfetta.” Restai in silenzio, mentre scrollavo foto in cui veniva evidenziato il vitino, che nella realtà sarebbe corrisposto a una taglia 40, la terza abbondante di reggiseno, gli occhi verdi. Lui doveva avere letto il gigantesco punto di domanda sulla mia testa: “Vedi, ha la vitiligine” e fu allora che realizzai che quella piccola macchia più chiara sulla guancia non era un raggio di luce che entrava da una finestra immaginaria.
“Ma come fate ad assicurarvi che lei non perpetui stereotipi?” domandai. “La controllo io”. Dove “io” stava per un ragazzo bianco, cisgender, benestante, che non aveva fatto particolari studi sulla materia. Sipario.
“Non è il giocatore che è stato attaccato. È l'uomo. È il padre di famiglia.
Questa non è la prima volta che mi succede. E non sono il primo a cui è successo.
Abbiamo fatto i comunicati stampa, le campagne pubblicitarie, i protocolli e nulla è cambiato.
Oggi un intero sistema deve assumersi le proprie responsabilità:
- Gli autori di questi atti, perché è facile agire in gruppo, nell'anonimato di una tribuna.
- Gli spettatori che erano in tribuna, che hanno visto tutto, che hanno sentito tutto ma che hanno scelto di tacere, voi siete complici.
- Il club dell'Udinese, che ha parlato solo di interruzione della partita, come se non fosse nulla, è complice.
- Le autorità e la Procura, con tutto quello che sta succedendo, se non farete nulla, SARETE COMPLICI ANCHE VOI.”
Ieri per la prima volta una partita ufficiale di Serie A è stata interrotta per colpa di un gruppo di razzisti che ha preso di mira il portiere del Milan Maignan (il messaggio sopra è stato pubblicato sul suo Instagram).
Una campagna per sensibilizzare sui diversi volti della depressione, specialmente quelli che non associamo stereotipicamente a questo disturbo.
Sono una persona semplice: mettimi in una pubblicità un animale e io la guarderò. Per una volta, però, nonostante lo spot mostrasse dei tenerissimi cuccioli, la mia attenzione è stata attirata da una presenza umana: quella della traduttrice LIS in basso a sinistra.
Dovremmo pensarci in automatico quando produciamo uno spot?
E con questa domanda ti saluto.
A presto,
(a martedì, se puoi raggiungermi in Santeria a Milano)
Flavia
A proposito di "cape" ad Ancona c'è anche quella di gabinetto :-)
https://www.linkedin.com/in/maria-gloria-frattagli-32189767
Sei anche la capa delle mie neswletter del cuore