Lo ammetto: sono tra quelle persone che, quando scorrono l’homepage dei giornali, leggono principalmente i titoli e cliccano su una ristretta selezione di articoli.
E se è buona norma evitare di esprimere un’opinione su un fatto che non si è approfondito, è vero però che le testate sono più che consapevoli di come funziona la nostra fruizione dei loro contenuti.
Per questo mi chiedo come mai il titolista qui volesse aizzare chi legge contro chi chiede pari condizioni sul lavoro.
Riprendo dal post su LinkedIn di Santina Giannone:
“La parità retributiva causa la bancarotta della città di Birmingham.
Leggendo l'articolo si scopre che si tratta di un debito accumulato in 10 anni.
Approfondendo ancora emerge che sono 1,1 i miliardi dovuti alle persone che lavorano per la municipalità, che c'è 1 miliardo in meno di trasferimenti dal Governo e che ci sono 100 milioni di buco Oracle.
Ma la correlazione con il fallimento è dritto e diretto con la parità retributiva. Come se questa ne fosse la causa diretta e non una cattiva gestione mista alle difficoltà degli Enti locali.
Che brutte persone che sono queste donne: adesso sono anche la causa del fallimento dei Comuni.”
Cambiamo città.
A Venezia si è appena conclusa l’80esima edizione del suo Festival più famoso. In quest’anno scarno di attori e attrici internazionali causa sciopero, è spiccata la presenza di film firmati da registi con cause di pedofilia sulle spalle: Roman Polanski, Luc Besson e Woody Allen.
A proposito di quest’ultimo, dopo la sua proiezione i titoli che sono girati erano più o meno così:
Eppure, come dice Betty Senatore in questo reel:
“A parte che non c’è nessuno che cronometra a Venezia, ci sono due tipi di proiezioni alla Mostra: quella dove c’è il cast presente, gli invitati e dove fanno il red carpet, e l’altra dove ci sono i giornalisti. Chiaramente quella dove ci sono gli attori e il regista è accompagnata da un applauso per una questione anche di educazione, di benvenuto. Ma si fa sempre.
Invece quella che dice la verità sul film è quella dove c’è il giornalista e i critici cinematografici. Però non dura mai 9 minuti, al massimo si può arrivare a 40 secondi. Si capisce se un film piace o meno dall’intensità dell’applauso ed, eventualmente, ci sono anche dei fischi.
Forse è per questo che poi uno va a vedere un film dopo Venezia, dopo aver letto “dieci minuti di applausi” e ci rimane male perché se l’aspettava meglio. Ecco, perché non è vero, è un’invenzione della stampa italiana.”
“L’uomo va separato dall’artista”, mi ripetono. Eppure a me sembra che spesso la celebrazione dell’artista venga strumentalmente usata per l’assoluzione dell’uomo.
Ma passiamo a tutt’altro argomento, come il pericolosissimo - e costosissimo - intervento chirurgico che la modella Fischer ha deciso di intraprendere pur di avere gambe più lunghe.
Come ha specificato Noemi De Falco nelle sue Instagram Stories:
“Che follia! Penseremmo tuttə leggendo il titolo.
Poi leggi il contenuto dell’articolo e scopri che dietro questa “follia” c’è una storia di abuso psicologico da parte dell’ex marito durata anni che ha comportato e continua a comportare enorme sofferenza per questa donna.”
E questi sono tre smascheramenti di titoli usciti questa settimana che mi sono capitati così, senza neanche cercare. Immaginati cosa rileverebbe un’indagine più approfondita.
“A dicembre del 2014 il settimanale americano New Yorker raccontò di uno studio compiuto dallo psicologo Ullrich Ecker alla University of Western Australia. L’articolo del New Yorker era intitolato “Come i titoli cambiano il nostro modo di pensare”, e spiegava non tanto come i titoli siano spesso inesatti, falsi o sbagliati, ma che proprio dai titoli noi condensiamo le informazioni con le quali poi ci facciamo un’idea della realtà, dei fatti e del mondo (spesso inesatta, falsa o sbagliata).
Anche per chi conclude la lettura di un articolo, diceva la ricerca, è soprattutto il titolo a influenzare la percezione del contenuto e ciò che ne conserverà, a prescindere dal maggiore approfondimento e articolazione che troverà nel resto del pezzo.
E quando il tasso di inaccuratezza dei titoli è molto superiore a quello già alto degli articoli, questo significa che ciò che conserviamo in termini di conoscenza della realtà e degli eventi accaduti è una grandissima quota di informazioni false.”
Da “Voltiamo decisamente pagina”, il libro del Post sul giornalismo.
Le segnalazioni di questa settimana:
solo una, leggere l’articolo completo di Valentina Mira sull’infantilizzazione delle donne che hanno subito violenza, di cui riporto qui alcuni estratti:
“La condizione che avevo posto alla trasmissione, anche sentendo la mia agente letteraria, era di non essere presentata come una vittima ma come una scrittrice.
(…)
Sono stata presentata come “Valentina”. Solo Valentina. Nessun cognome. Nessuna identità. X.
“Voglio introdurre Valentina” - pausa a effetto - “Valentina è una ragazza molto timida, quindi cercheremo di parlare insieme, ma datemi una mano anche a supportarla”. In un colpo ero diventata: Valentina (priva del cognome, una per rappresentarle tutte, una per rappresentare la vittima perfetta, lacrimevole e funzionale, speravano). Una ragazza (ho quasi 33 anni, qualche ruga, qualche capello bianco che copro tingendoli, sono una donna). Molto timida e bisognosa di supporto dal pubblico. E sì che timida lo sono, ma non pensavo potesse sostituire il mio cognome e la mia professione. Nemmeno pensavo di avere bisogno di supporto per parlare, visto che ho fatto un centinaio di presentazioni del mio libro nei contesti più disparati, non solo in Italia ma anche in Svizzera e in Germania.
(…)
La conduttrice continua: “Per la prima volta in esclusiva con noi racconta la sua storia”. Io non ho mai detto che avrei raccontato la mia storia. E non c’è alcuna esclusiva. Il libro è uscito due anni fa. La mia storia pubblicamente l’ho raccontata lì, quello era lo spazio che ritenevo degno della complessità che riguarda la violenza di genere, non un quarto d’ora in televisione. Quarto d’ora che si ridurrà della metà (8 minuti, per l’esattezza). La conduttrice vede poi il libro sulla panchina e ricorda magicamente che ho un cognome. Non dice comunque il titolo del libro. Dice tuttavia che “ci torneremo tra un attimo”. Spoiler: non lo farà mai. Non si parlerà di libri. È sangue che vogliono: il mio. Nel documento che mi ha mandato la persona della Rai che ha letto il libro in quella redazione per preparare le domande, ci sono persino dei suggerimenti per le risposte. Una di queste? Si legge: sangue.
Non gliene darò neanche una goccia.
(…)
Il fatto che io abbia frequentato per qualche tempo proprio la Scuola di giornalismo della Rai, quella di Perugia, prima di abbandonarla un anno prima, fa sì che io sia stata edotta su queste tecniche. Anche il pubblico dovrebbe esserlo, quindi ecco qui cosa insegnano: inquadrare le mani della “vittima”, della persona che sta raccontando una storia “toccante”, zoomare sul viso in caso di lacrima. Il problema è che io non stavo raccontando nessuna storia “toccante”. Stavo portando dati, statistiche, parlando di sentenze, di leggi. Ho rifiutato ogni domanda personale con gentilezza ferma. Avrei voluto poter parlare senza essere interrotta con aggressività ogni tre secondi, ma sono rimasta su quella strada, quella del fare informazione.
Tenete voi che che parlate di lupi, e non di uomini, gli occhi aperti,
perché siete voi che non vedete il problema.
Il problema è che questi sedicenti giornalisti sarebbero quelli che affermano di salvarci dalle fake news... Sarebbe già bello sapessero scrivere in italiano corrente.
Salve, trovo il tuo scritto veramente illuminante per me che mi sento sempre " ignorante " su argomenti e notizie e che a volte leggo i titoli per cercare di informarmi su più argomenti ma che poi mi rendo conto di quanto siano fuorvianti e spesso sbagliati. Il racconto di Valentina rappresenta la TV che non mi piace, alla D'urso , tanto per non fare nomi. Buona giornata