La grande domanda che pende su di me ogni volta che mi appropinquo a scrivere questa newsletter è:
parlare del trend del momento o prendermi una pausa da lui?
Se dovessi guardare ai numeri, non avrei dubbi e oggi mi concentrerei su come dovremmo rivedere il linguaggio giornalistico (forse anche giuridico?) onde evitare l’accecante indignazione scaturita dal decontestualizzare la parola “crudeltà” da una sentenza.
Ricorderei poi che i TikTok in cui si simulano le 75 coltellate di Turetta sono una forma di violenza così come l’indifferenza istituzionale, ben rappresentata dall’Aula del Senato durante l’interrogazione sulle misure del governo per contrastare i femminicidi.
Dato però che sto iniziando ad avere una certa nausea mista a senso di inutilità, perché scriverne qui non cambierà nulla (non credo, infatti, che un monologo simile faccia sorgere nuove domande a chi già mi legge), oggi mi tiro fuori dal trend.
Ripartiamo da zero: cancella l’oggetto della mail che hai visto sopra, il titolo di questo numero è un altro, ovvero
La femminista rotta
Perché non mi riesce quando si parla di donne famose?
È stato facile per me essere femminista con bell hooks o Simone de Beauvoir.
Ma ammetto che con altre è più difficile. Con alcune non lo sono (stata?) affatto.
“Immagina questo: hai appena ottenuto uno degli stage più prestigiosi del Paese e senti che la tua carriera sta per decollare. Sei così entusiasta di lavorare fianco a fianco col tuo capo, che è senza dubbio la persona più importante, e tutti amano e ammirano quest’uomo.
Un giorno comincia a mostrarti attenzione, inizia pure a flirtare con te e una cosa porta a un’altra. E finite in una relazione segreta. Per un po’ tutto è fantastico (…), ma un giorno sei al supermercato e l’FBI ti circonda. Sanno di te e del tuo capo, perché la tua collega ha segretamente registrato le tue conversazioni e le ha passate all’FBI. Ti dicono che se non collaborerai, andrai in prigione. Improvvisamente, ogni esplicito dettaglio della tua relazione col tuo capo sposato viene diffuso pubblicamente. La tua faccia è sulle copertine di tutti i giornali e tutti i notiziari stanno parlando di te. Ti chiamano putt4n4, tr0i4, criticano il tuo corpo e ti mettono in imbarazzo ogni giorno per decenni. Non sei autorizzata a parlarne con gli amici, puoi a malapena uscire di casa, il tuo nome e la tua reputazione sono completamente rovinati. (…)
Questa è la storia di Monica Lewinsky, quando aveva 22 anni. (…)
Nonostante i 27 anni di differenza e un chiaro abuso di potere da parte del Presidente, Monica è stata l’unica a essere stata fatta a pezzi dai media.”
Tratto dal podcast “Call her daddy” di Alexandra Cooper.
Anch’io sono stata una di quelle che ha etichettato Monica Lewinsky (ma non Bill Clinton) per la sua relazione, così come marchiavo le bagn-ine di Baywatch, le vel-ine e le letter-ine che vedevo in TV e finivo per associare a “donn-ine”.
Giudicavo loro per come utilizzavano il sistema a loro favore, senza capire che era il sistema a usarle, l’unico a uscirne sempre vincitore. Confondevo la causa con l’effetto.
“La bellezza per una donna è la valuta corrente per prendersi dello spazio in un mondo patriarcale.”
ha detto Marina Pierri a un evento di BookPride dedicato al film “The substance”, dove il personaggio interpretato da Demi Moore si vede costretto a “partorire” la sua vecchiaia.
Ed è quello che emerge anche in “The last showgirl”, dove Pamela Anderson, nei panni pieni di paillettes di Shelley, ricorda così il suo momento lavorativo di massimo splendore:
“Sentirsi vista. Sentirsi bella. È potente.”
Curioso che mentre sul grande schermo ci sia un film incentrato sul declino della figura della soubrette, su quello piccolo e nostrano sia andato in onda “Ne vedremo delle belle”, programma di RaiUno che metteva in sfida diverse prime donne dell’epoca del Bagaglino o della TV di Antonio Ricci, quando era in auge.
Uso il passato perché l’esperimento si è concluso ieri sera, in anticipo rispetto a quanto programmato, per via dei bassi ascolti. “È mancato l'aspetto fondamentale che doveva essere il pepe tra le protagoniste - ha dichiarato il conduttore, Carlo Conti - pepe che non c'è stato: la loro voglia di fare spettacolo ha superato quella del battibecco».
Insomma, il problema è che non hanno interpretato adeguatamente il cliché “le donne sono le peggiori nemiche delle donne”.
In un’intervista per Il Corriere della Sera una delle partecipanti, Laura Freddi, ha dichiarato:
“Ho conosciuto donne che per la prima volta si sono unite e che hanno dimostrato solidarietà femminile. Questo programma, ahimè, forse voleva per certi aspetti una rivalità tra noi che non si è venuta a creare perché ci siamo aiutate nelle difficoltà, al di là di qualche battibecco. Tra di noi c’è stata solidarietà, magari anche a discapito dello show, ma noi siamo contente che sia andata così».
Alla domanda: “La figura della donna in tv è cambiata. C’è ancora posto per le showgirl?”, Freddi risponde:
“Sarà anche vero che le showgirl fanno parte della tv di un tempo, ma pur capendo le critiche di chi la riteneva più maschilista, per certi versi a me quella televisione fatta di luci, leggerezza lustrini e paillettes piaceva di più.”


E quindi, cosa posso fare io per essere un po’ più femminista a 360°?
Usare il mio potere economico di consumatrice culturale (di film, serie, programmi, libri) per sostenere quei prodotti in cui le donne sono protagoniste e non contorno;
Trattenermi dal commentare l’aspetto fisico o le relazioni sentimentali di una donna, anche fosse solo con una storia Instagram che dopo 24 ore si cancella, perché comunque ho inquinato uno spazio;
Sempre, sempre e sempre: mettere in discussione il sistema.
Le segnalazioni di questa settimana:
L’associazione statunitense The Harris Project, che si occupa di disordini co-ricorrenti, ha collaborato con alcune riviste a un numero speciale, “The Missing Issue”, dove si rileggono le storie di Amy Winehouse, Matthew Perry e altre star di cui si è a lungo parlato concentrandosi solo sulle loro dipendenze da droghe, senza intrecciarle alla loro salute mentale.
“Troppe persone che lottano con le sfide della salute mentale e con l'uso di sostanze vengono fraintese, travisate o trascurate del tutto.
Ha affermato Stephanie Marquesano, fondatrice e presidente del Progetto Harris.
“The Missing Issue " è un'opportunità per cambiare portando consapevolezza sui disturbi che si verificano e rimodellando il modo in cui vengono raccontate queste storie. Questa campagna riguarda l'educazione, la compassione e la riforma sistemica, spostando la narrazione a una che porta a una migliore comprensione e risultati migliori.”
Quanto sono davvero “nostri” i nostri gusti? Me lo chiedo sempre quando vedo rappresentazioni come queste, dove si ingabbia una bambina nell’immaginario delle bambole e degli unicorni, mentre a lui sono associati mezzi di trasporto e dinosauri. E se gli piacessero gli unicorni, dovrebbe sentirsi meno bambino?

Marta Trinca sta conducendo una ricerca per la sua tesi di laurea volta a esplorare il ruolo delle organizzazioni nel superamento degli stereotipi di genere legati alla flessibilità lavorativa. Per poter chiudere l’analisi ha bisogno ancora di una 70ina di partecipanti. Compila il sondaggio a questo link!
“Lui pensa che non sto ridendo perché sono autistica… Ma magari sono le sue battute a non essere così divertenti?”. Lo spot “See us as individuals, not stereotypes” ci ricorda che l’autismo si presenta in forme diverse in ogni persona.
La newsletter dentro la newsletter finisce qui.
Ci rivediamo presto,
Flavia
Ma Carlo Conti ancora? Sono via dall'Italia da un decennio e i conduttori (eccetto forse Cattelan che e' spuntato un po' fuori a caso) sono sempre gli stessi! mi piacerebbe vedere un Sanremo senza Conduttore e " "co-conduttrici" ", ma solo conduttrici donne (una, o molte, non importa, basta che non siano letter-ine, vel-ine...)
Sempre grazie Brevi