Insegna a tuo figlio come chiedere aiuto.
Insegna a tuo figlio il consenso.
Insegna a tuo figlio a pulire.
A stirare.
A cucinare.
Ma anche:
insegna a un tuo amico a uscire dalla logica del branco,
a denunciare la condivisione di materiale intimo non consensuale nella chat del calcetto,
a non importunare la cameriera.
Insegna a un tuo collega a segnalare ai piani alti quell’Excel coi culi femminili più belli dell’ufficio,
a non invadere lo spazio personale,
a non insinuare che “è lì perché l’ha data”.
Insegna al parentado che se la bimba non vuole abbracciare il nonno/lo zio/l’amico di famiglia, nessuno può forzarla,
che la scelta dello sport o del look dei figli tuoi e degli altri non è materia di discussione,
che l’omertà passa per frasi come “i panni sporchi si lavano in famiglia”.
Insegna a un uomo tutto questo, così poi non “dobbiamo insegnare alle ragazze a salvarsi”, cit.
Insegna al giornalismo italiano cos’è il “Manifesto di Venezia”, scritto apposta per veicolare una corretta informazione quando si parla di violenza machista contro le donne.
Disimpara a colpevolizzare chi subisce la violenza.
Perché dico “disimparare il victim blaming” e non “imparare a non farlo”?
Perché la colpevolizzazione secondaria della vittima è insita nella nostra cultura.
Ce la insegnano sin da quando siamo piccole e piccoli, con frasi innocenti - le frasi, mica le donne, che se denunciano è perché vogliono visibilità/soldi/vendetta e, se non denunciano, sono spacciate per sceme.
Sono tutti segnali che abbiamo captato in tenera età e che ci hanno formato, come ci formavano i giochi. Da qui è nata l’idea di “Gira la colpa”, uno spot grottesco firmato Hella Network.
Ahimè non troverai “Gira la colpa” sugli scaffali, ma potrai vederlo all’interno di “Stai zitta”, lo spettacolo teatrale tratto dal libro di Michela Murgia a cura di Teresa Cinque, Antonella Questa, Valentina Melis e con la regia di Marta dalla Via.
Impara a disimparare il sessismo che permea la nostra cultura.
Sapevi che…
“la parola femminicidio era già in uso nell’Ottocento per indicare l’assassinio di una donna in quanto tale. E in tal senso era contemplato nel law lexicon del 1848 come crimine perseguibile. Il termine viene ripreso da Diana Russel durante le sue conferenze nel 1976 e solo nel 1992 la criminologa fornisce un’ulteriore precisazione del concetto in un articolo contenuto nel libro “Femicide: the politics of women killings” scritto insieme a Jill Radford”.
Le segnalazioni di questa settimana:
“Dare spazio e informazione accurata ai femminicidi e alla radicata cultura che li genera non è solo apprezzabile, da parte dei giornali: è necessario e inevitabile per dare senso al proprio ruolo di protezione delle comunità e della convivenza. Ma l'impressione nei giorni scorsi è stata spesso che della cultura che li genera si sia parlato con scarse profondità e prospettiva, privilegiando morbose e capillari raffigurazioni degli aspetti più ipotetici, singolari, macabri e personali relativi ai protagonisti delle storie: vittime e accusati e chiunque altro. In una enorme tentacolare puntata di Chi l'ha visto? nelle sue versioni peggiori, in cui "orrore" e "abisso" traboccano da ogni paragrafo. E l'esibita l'indignazione contro i femminicidi si sta rivelando in gran parte una scusa buona per legittimare le più voyeuristiche narrazioni della cronaca nera, un impegno di facciata per permettersi bassezze narrative su cui fino a ieri ci si sarebbe sentiti costretti a qualche moderazione in più.” da Charlie, una newsletter de Il Post sul “dannato futuro dei giornali”.
All’Arci Bellezza di Milano si trova questo poster, che sintetizza con una metafora visiva come è strutturata la violenza di genere.
Nella serie “Ragazze elettriche”, tratta dall’omonimo libro di Naomi Alderman, si ipotizza un mondo in cui la forza fisica è - letteralmente - nelle mani delle donne. Nello spiegare cosa si prova, una delle protagoniste racconta alla madre: “Non ho fatto caso al tempo che passava, era buio, ma invece di correre mi sono messa… A camminare fino a casa nel buio completo. No, è stato bello, è quello il punto. Adesso vado a correre con le cuffie nelle orecchie e non metto più le chiavi tra le dita per sicurezza. Non mi organizzo con le mie amiche, perché tanto possiamo tornare dalle feste sane e salve. Neanche me ne rendevo conto di vivere sempre nella paura”.
“Una persona intervistata su quattro cercherebbe di far cambiare idea a una bambina che mostra passione per il calcio, per paura che possa subire qualche forma di discriminazione” dice la ricerca di eBay sul calcio femminile in Italia. Insegna a chi fa certe battutine che il pallone lo devi tirare col piede, mica col pene.
Secondo un’indagine condotta nel 2021 nel Regno Unito, i casi di violenza domestica aumentano quando c’è un evento sportivo e la squadra del cuore perde. Questo non significa che dobbiamo impedire le partite, ma che dobbiamo rivedere anche la cultura del tifo.
A settimana prossima,
se ci rimane la forza di ribadire l’ovvio.
Flavia
Sono una donna, ho due figlie. È una vita che mi trovo a trattare il dilemma tra sicurezza e libertà: se il problema è la violenza maschile, perché devo 'imporre' alle mie figlie misure di sicurezza?
Grazie per questo bel compendio, lo girerò a tutte le amiche che crescono figli maschi.
GRAZIE. Questa newsletter è da tenere nel comodino, come vademecum 🙏