Perché parliamo di sharenting solo quando di mezzo c’è Chiara Ferragni?
Un esercizio di obiettività
SHARENTING = (da “share”, condivisione, e “parenting” ovvero “fare il genitore”) condivisione online di materiale riguardante i propri figli. Si sta valutando se sarebbe più corretto usare il termine “oversharenting” per sottolineare la sovraesposizione dei minori.
Per la seconda volta in poco più di un mese si sta parlando di sharenting perché di mezzo c’è Chiara Ferragni; allo stesso tempo, non stiamo davvero parlando di sharenting, perché di mezzo c’è Chiara Ferragni.
Separare il giudizio sulla questione da quello sul personaggio sembra impossibile: mentre ci dividiamo tra chi sostiene i Ferragnez e chi li accusa, ci stiamo dimenticando di chiederci se ci sia qualche indicazione a riguardo. E in effetti una legge c’è: il diritto alla privacy, valido anche anche per i minori in quanto – incredibile, lo so – individui se stanti.
Ci sarebbero poi anche delle leggi sull’uso e l’abuso di immagine, per cui prevedo che in futuro ci saranno casi simili a quello della diciottenne austriaca che ha fatto causa ai genitori per le oltre 500 foto pubblicate su Facebook senza il suo consenso.
Da femminista intersezionale che parla spesso di principio di autodeterminazione penso che ormai ci sono migliaia di persone con un’identità digitale pre-impostata, che dovranno fare i conti da adulte con il fatto che non sarà così semplice cancellare decenni di foto, video e scene imbarazzanti collegate al proprio nome su Google.
Addossare tutta la responsabilità della questione ai genitori, però, mi sembra semplicistico: siamo proprio sicur3 che media, piattaforme social e noi individui in quanto famigliari o amici, ma anche follower, non c’entriamo qualcosa?
Ho chiesto ad amiche e colleghe alcune soluzioni per un sano sharenting, ed ecco cosa ne è venuto fuori.
SPUNTI PER GENITORI
Perché non aspettare che bambini e bambine siano in grado di comprendere per renderl3 partecipi al processo di creazione di una foto o di un video? (Grazie a Claudia Guarnati per lo spunto). Nel frattempo ci sono altri modi per non escluderli forzatamente dalla nostra narrazione social (suggerisco di seguire Tegamini per vedere un esempio).
Usare la tecnica del “what if”: cosa succederebbe se una foto finisse nelle mani di un pedofilo? E se i dati che stiamo registrando oggi venissero usati un domani per stabilire a quale scuola o quale lavoro avranno accesso le nuove generazioni? E se tuə figliə dovesse leggere dei commenti negativi riguardo al suo aspetto sotto a un contenuto che hai pubblicato?
Quello che secondo me è il metodo più efficace: immaginati cosa i tuoi genitori avrebbero raccontato di te, se all’epoca avessero avuto un account social. Io per questo ringrazio ogni giorno di essere nata negli anni ’80 – e, voglio dire, non c’era Instagram ma c’era Chernobyl.
SPUNTI PER TUTT3
Non interagire con contenuti che ritraggono i minori. Se è vero che “le persone capiscono solo quando le tocchi nel portafogli”, usiamo a nostro favore la moneta dei social: i like.
Questa sembra banale, ma non lo è, perché ci stavo per cascare: se stai facendo dei contenuti per criticare lo sharenting, che senso ha usare le foto “incriminate”?
Fare pressione affinché i giornali e i media abbiano una kid policy (grazie alla mia amica Blake Lively) e che applichino un effetto pixel sul volto dei bambini in ogni caso, anche quando sono stati i genitori stessi a pubblicare quelle immagini.
Sollecitare i social media ad affrontare la questione e monitorare quegli account che salvano o scaricano un certo numero di video contenenti minori (come mi suggeriva Marianna Marcucci, ci sono numeri inquietanti su TikTok).
Chiederci come mai l’oversharenting è più diffuso tra le madri che tra i padri. Sarà mica che subiscono una certa pressione sociale che le porta ad avere un continuo bisogno di conferme e attestati di approvazione su quanto stanno facendo?
(Grazie a Ella Marciello per questa riflessione)
Le segnalazioni della settimana:
· Il catalogo giochi di Target è un perfetto esempio di cosa significhi comunicazione inclusiva: aumentare le rappresentazioni per mostrare quanto è varia la realtà.
· Di solito uso questo spazio per condividere le novità, ma stavolta faccio un’eccezione. Per chi non l’avesse vista, ecco una campagna stampa di Lego del 1981 che per l’epoca stava comunicando una notizia straordinaria: anche le bambine si divertono a giocare coi mattoncini.
· Sull’esistenza di giochi da maschi e da femmine, lascio quest’infografica come reminder. (fonte)
· La pink tax, ovvero la maggiorazione di costo per i prodotti destinati alle donne, viene applicata anche ai giocattoli, come ci mostra questo post di Pepitesexiste (clicca per sfogliare il carosello).
Alla prossima settimana,
se il Ministero del Merito è d’accordo.
Flavia