A maggio ho tenuto un TEDx Lab sul linguaggio inclusivo insieme a Vera Gheno e Giulia Tosato. Questa è la mia parte così come me l’ero preparata - con qualche rimaneggiamento per la newsletter.
Sono Flavia Brevi e mi occupo di comunicazione da 15 anni,
da qualche anno in meno di comunicazione inclusiva perché fino a poco tempo fa non mi “facevo certi problemi”. E non me li facevo per un semplice motivo: il privilegio.
Che cos’è il privilegio?
Se me lo aveste chiesto all’inizio degli anni ’90, quando era una bambina, avrei risposto che per me era lui:
Il Pisolone: un oggetto mitologico metà sacco a pelo, metà animale,
trasformato in desiderio collettivo grazie a una massiccia campagna.
Facciamo una prova: quante persone da piccole lo volevano?
(Circa metà di quelle presenti alzano la mano, ndr)
Quante persone l’hanno ottenuto?
(Tutte le mani si abbassano e dentro di me rilascio un sospiro di sollievo, perché era quello che mi aspettavo, ndr)
Chi aveva il Pisolone era un bambino o una bambina con un privilegio,
perché il suo prezzo rappresentava l’intero budget annuale dei regali per molte e molti di noi e, anche avendoceli quei soldi, era comunque introvabile nei negozi.
Oggi penso ancora che il Pisolone rappresenti un privilegio, ma il mio.
Anche se non avevo l’oggetto dei miei sogni, potevo sognare di averlo, perché mi rivedevo nelle bambine della sua pubblicità.
Non era così per tutt3.
Me ne sono resa conto imbattendomi nel catalogo dei giochi di Target, una catena di grandi magazzini, che mi ha fatto avere quello che chiamo un momento “AH!”.
Se mi stupisco, se mi meraviglio di quello che vedo, significa che ho di fronte qualcosa a cui non sono abituata. E la sorpresa non risiede certo nel vedere una macchina da cucire giocattolo.
Intendiamoci: la pubblicità commerciale non vuole fare cultura, vuole sempre venderci qualcosa. Ma mentre ci vende qualcosa, fa anche cultura.
Perché se mostro un bambino che cuce, sto implicitamente dicendo che è socialmente accettabile che un maschio si dedichi a un lavoro di cura.
Se in una pubblicità che non parla di disabilità vedo una bimba sulla sedia a rotelle e un bimbo con sindrome di down
ricordo che loro non sono una disabilità, ma persone.
Se in una pubblicità vedo un papà che gioca con la figlia
sto sostenendo la genitorialità condivisa. E in questo caso specifico sto anche ricordando che – AH – le famiglie non sono tutte bianche.
Un’unica rappresentazione è come un’unica storia. Come dice Chimamanda Ngozi Adichie, in uno dei TED Talk più famosi:
“Raccontare un’unica storia crea stereotipi.
E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti.
Trasformano una storia in un’unica storia.”
Facciamo una prova di quanto siamo influenzat3 dagli stereotipi? Vediamo se abbiamo dei momenti: “AH!”.
Immaginate una persona che tiene un corso di pittura.
L’avete immaginata così?
Valentina Toro ha ciò che serve nell’illustrazione: uno stile personale. Sì, ha anche una malformazione agli arti superiori, ma Domestika non la rappresenta come una persona disabile, anche la composizione della foto è quella standard dei suoi docenti.
Ora immaginate una ballerina di danza classica sulle punte. L’avete immaginata così?
Kira Robinson ha raccontato su TikTok di aver sempre dovuto dipingere le sue scarpette perché, nella danza classica, devono avere lo stesso colore della pelle. Solo che nei negozi le trovava bianche o, al massimo, rosa. E io che mi lamentavo del Pisolone.
Immaginate una persona che indossa un orecchino. Avete pensato che potrebbe avere un impianto cocleare?
Immaginate due donne in lingerie.
E ricordatevi che un intimo bello non serve solo a chi ha meno di 30 anni.
Immaginate un ingegnere che nel 1958 aggiusta un computer IBM.
E questo è il motivo per cui dovremmo usare i femminili professionali: per evitare fraintendimenti. E riconoscere alle donne un posto in ogni settore lavorativo.
Quindi cos’è il privilegio?
Non è solo avere qualcosa, come il Pisolone (o un’istruzione, cure mediche, il potere di decidere del proprio corpo - ah, no, scusate, mi confondo coi diritti).
In una cultura discriminatoria, il privilegio è anche poter essere se stess3 senza provare vergogna, paura, solitudine. È il sentirsi parte della società a tutti gli effetti.
Per questo credo che sia intrecciato con le probabilità di vedersi rappresentat3.
Per includere, dobbiamo prima prendere consapevolezza di quell’ “io” della parola “privilegio”.
Grazie dell’attenzione.
Le segnalazioni di questa settimana:
Margherita Ceretti, Giulia Ricciardi ed Emily Vanzo hanno vinto La Premia Isa - il premio Isabella Bernardi dedicato alle professioniste della comunicazione - con la campagna “The sign dance”, per l’Ente Nazionale Sordi.
Stasera mi cimenterò nell’arduo compito di guardare Barbie senza farmi influenzare da tutte le conversazioni che sto leggendo. Intanto, però, posso già applaudire all’idea di Cirian McKeon per Heine-ken.
Estée Lauder è il primo brand di skincare a diventare partner della squadra maschile del Manchester United.
La campagna di Invictus Camp, che parte come il classico “spottone” della Puglia e svela gradualmente il suo intento: raccogliere fondi per costruire un campo estivo dedicato alla terapia ricreativa per bimbe e bimbi.
Alice Facchini e IRPI, testata indipendente non profit di giornalismo investigativo, stanno realizzando la prima inchiesta in Italia sulla salute mentale di chi lavora nel giornalismo, in particolare come freelance. Si parte da una raccolta di dati, con questo questionario.
La newsletter va in vacanza per un po’,
ma continuerò a condividere le segnalazioni su LinkedIn e Instagram - anche se quest’ultimo lo userò perlopiù per i contenuti dal Giappone.
Ci ritroviamo a settembre,
Flavia
Un'unica storia raccontata può sembrarci l'unica possibile. L'esercizio di onestà intellettuale è iniziare a raccontarne altre, diverse
Sempre interessante leggerla, grazie.