Un’identità, nel momento in cui si forma, esige un nome, stabilito da genitori o caregiver nel caso di una persona. Ma cosa succede quando l’identità è di un popolo?
“Perché Lappone non andrebbe usato: perché le piccole rivoluzioni si fanno da questo, da dare alle cose, alle persone, ai luoghi il giusto nome.
Lappone in realtà ha un’origine dispregiativa, viene da un termine svedese, “lap”, che significa “pezza, stoffa” e in effetti i Sami [il popolo indigeno di quella che finora ho chiamato Lapponia, ma che m’impegnerò a nominare Sápmi da qui in avanti, ndr] così erano visti, come straccioni, come persone ignoranti, il popolo inferiore.
E quindi non Lappone, ma Sami. (…)
tratto dalla puntata “Non chiamiamola Lapponia, con Valentina Tamborra” del podcast Globo, che fossi in te ascolterei per intero.
Una volta, mentre parlavo con Isa Borrelli, ho usato il termine “mediorientale” - giuro che non stavo citando nessuna canzone di Gianna Nannini. Mi sono bloccata, qualcosa non mi tornava. Isa mi ha schiarito le idee: “Si tratta di oriente rispetto a cosa, o meglio, a chi?”.
Rispetto a chi si è messo al centro del mondo, anche se al centro non è: l’europeo.
“Una mappa è una cosa divisa.
Creare una mappa significa visualizzare una rappresentazione chiara e in colori coordinati di una divisione. I confini separano i mari dalle loro origini, le città dalle loro gemelle e le persone dai loro destini.”
da “L’Africa non è un Paese” di Dipo Faloyin
In questo post Instagram puoi leggere i 10 Paesi africani che hanno cambiato il proprio nome per sganciarsi da quello affibbiato loro dai coloni europei.
Come riporta la didascalia: ”l’atto di rinominare non è stato solo simbolico ma anche una dichiarazione di indipendenza, rifiutando le narrazioni e le eredità imposte dalle potenze coloniali. Ha permesso a questi Paesi di rimodellare la propria identità nazionale alle proprie condizioni, promuovendo un senso di orgoglio e unità tra la loro gente".
Ma mentre noi siamo qui, a riflettere sul peso delle nostre parole, di là Donald Trump fa Donald Trump - ovvero, spara cose a caso.
Ora vorrebbe fare shopping di territori, dal Canada alla Groenlandia, e ribattezzare il Golfo del Messico come “Golfo d’America”.
La risposta della Presidente Claudia Sheinbaum? Una mappa del 1607 commissionata dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali in cui gli Stati Uniti erano nominati “America Messicana”.
L’8 gennaio, in occasione della Giornata contro il Pay Gap dovuto all’etnia, la community per lo scambio di casa People like us ha condiviso la campagna #NameTheBias, “Nomina il bias”.
Partendo dalla shakesperiana domanda “What’s in a name?” (in italiano tradotto con “Cos’è un nome?”) e passando per vari tipi di discriminazione, questa poesia rap ci ricorda che le persone con nomi etnicamente diversi da quelli del Paese in cui vivono devono inviare il 60% di candidature in più per ottenere un colloquio.
Non un lavoro, un colloquio.
Le segnalazioni di questa settimana:
Il film più premiato ai Golden Globe, “Emilia Pérez”, proporrebbe una rappresentazione stereotipata del Messico e racconterebbe in maniera frivola e superficiale il fenomeno dei desaparecidos nel Paese. Per saperne di più, c’è quest’articolo del Post. Inoltre, secondo Critical Eye (grazie Stefano Ficagna): “La questione di genere, incarnata da un personaggio potenzialmente potente come quello di Emilia, non assume mai una direzione precisa, ingarbugliandosi in uno schema di controsensi quanto nella semplificazione dei suoi tratti maschili come “crudeli” e di quelli femminili come “compassionevoli”.
“Come è successo che mi sono persa questo gioiellino uscito 7 mesi fa?” mi sono chiesta dopo aver visto The Tabù Shop. Non posso spoilerare oltre, fai partire il video sotto.
“È bastato un minuto con mio padre per capire che il mio design ‘perfetto’ non era poi così perfetto. Testi troppo sbiaditi, pulsanti quasi invisibili. Per me andava benissimo, per lui era illeggibile.
L’errore non era solo estetico, ma funzionale: la gerarchia dei colori era carente e non garantiva la leggibilità necessaria. Ecco come un design ‘cool’ può trasformarsi in un incubo per chi ha una vista differente.
È qui che entra in gioco l’accessibilità: scegliere palette ad alto contrasto, distinguere pulsanti e link con segnali visivi inequivocabili, e testare su più dispositivi. Non è un extra, ma la base di un design inclusivo. Se tutti possono usarlo, tutti possono apprezzarlo.” grazie a Peppe Ricatti, UX Designer, per questo post LinkedIn.Un'idea da prendere in prestito, soprattutto se ci capita spesso di scrivere a persone che vivono in Paesi con un fuso orario diverso dal nostro: aggiungere un disclaimer nella firma delle mail per avvertire che, nel caso sia arrivata fuori dal consueto orario lavorativo, puoi rispondere quando è un "momento buono" per te, così come io l’ho inviata quando era un "momento buono" per me.
Grazie a Isotta dell’Orto per avermi girato questo post.
2 donne su 5 rinuncerebbero a un anno di vita per raggiungere il loro ideale di bellezza, secondo i dati del report di Dove “The Real State of Beauty”.
“L’educazione alla bellezza inizia molto presto, ogni volta più presto. È un'educazione per spezzarci, per modellare la nostra psiche, l'uso del nostro tempo, dei nostri soldi, per placare la nostra ribellione, con la scusa di modellare il nostro corpo. La bellezza è la scusa. Ecco perché dobbiamo liberare i nostri corpi per liberare il resto. A che età hai imparato che il tuo corpo non era quello “giusto” e che dovevi fare qualcosa per cambiarlo?”
Grazie a Mechi Baxzos che mi ha fatto scoprire la campagna del collettivo Mujeres Que No Fueron Tapa per ribellarsi ai diktat imposti, come quell’odioso “pancia in dentro, petto in fuori”.
In Fondazione Libellula abbiamo bisogno di te! Partecipa alla Survey Lavoro, Equità e Inclusione 2025 rispondendo a questo sondaggio. I risultati ci daranno un quadro delle discriminazioni e delle violenze di genere (e non solo) che le persone in età lavorativa hanno subito fuori e dentro le mura aziendali.
Per ora è tutto.
Il 16 gennaio alle 21 sarò in diretta sulla pagina Facebook e sul canale YouTube del Mensa per parlare di comunicazione inclusiva, ma se non puoi o vuoi collegarti ci troviamo sempre qui tra un paio di settimane.
Flavia
Bella newsletter, come sempre! Mi sono presa ora i cinque minuti per vedere il video di The Tabù Shop e wow, me l'ero perso anche io. Mi sono piaciute molto l'idea e la realizzazione, e la seconda parte beh... apre diverse questioni interessanti - e anche piuttosto complesse - che mi riportano subito all'esperienza di lavoro in un centro di PMA qui in Spagna. Un grande "melone da aprire", come dicono da queste parti :)
MI sono salvato tutto in diverse cartelline di questa puntata, grazie Flavia per l'immenso lavoro di facilitazione che fai ogni volta.
Il rap sui bias legati al nome m'è piaciuto tantissimo, così come l'episodio di Globo sui Sami (proprio non ne sapevo nulla della Lapponia che in realtà si chiama Sápmi).