Puoi spingerti oltre il confine, andare fino in Antartide, ma non ti libererai dalle discriminazioni che si trascina il tuo corpo di donna, della minaccia costante di essere prevaricata.
Infatti, secondo il rapporto dell’Australian Antarctic Program:
“le esperienze delle donne della cultura nella sede centrale erano distintive, specialmente nei rami a forte predominanza maschile. Le partecipanti hanno descritto vari tipi di comportamento inappropriato (ad esempio, battute sessiste) che sono incentivati e premiati.
(…)
I partecipanti hanno osservato che le donne sperimentano una gamma di molestie, inclusi contatti fisici o gesti non consensuali, richieste indesiderate di sesso, commenti, battute o allusioni sessuali, domande invadenti, esibizioni di materiale offensivo o pornografico”.
Non serve essere escursioniste, scienziate o ricercatrici per sperimentare sulla propria pelle l’iceberg della violenza, e non possiamo manco imputare la colpa al climate change.
In questi giorni ho letto più volte frasi come “le chat sessiste mica esistono solo nelle agenzie pubblicitarie” e non ho capito come questo debba essere un’attenuante o rassicurarci.
Dalla survey L.E.I. (Lavoro, Equità, Inclusione), che in Fondazione Libellula abbiamo svolto nel 2022, emerge che il 53% delle donne è stata oggetto di battute sessiste e volgari sul lavoro.
E dunque, ora che non solo sappiamo (lo sapevamo anche prima), ma ce lo siamo dette e detti ad alta voce, che si fa?
Innanzitutto, si riconsiderano due cose:
il ruolo degli uomini, che può essere quello del carnefice, ma anche quello dell’alleato. L’alleato non deve necessariamente essere stato senza macchia: anche uno degli ex membri della chat di We Are Social, Mario Leopoldo Scrima, ha dimostrato di esserlo, assumendosi colpe, responsabilità e mettendoci la faccia;
l’iconografia della vittima di violenza di genere, che non è più quel volto femminile tumefatto degli articoli di giornale o delle campagne del 25 novembre (fatte da chissà quali agenzie, converrebbe ora interrogarsi).
La “vittima di violenza” potrebbe benissimo essere la tua collega, che continua a lavorare al tuo fianco nonostante tutto, può essere una grandissima stronza, o una “cessa”, una che dopo aver subito l’abuso non ha pianto, o mentre lo subiva non ha urlato. Smantellare la visione idealizzata della vittima ci fa realizzare un’amara realtà: che ogni donna potrebbe esserlo stata.
Alcune delle pubblicitarie che hanno subito molestie, insieme ad alleate e alleati, hanno formato il collettivo Re:B.
Re:B come “REBellion, REBuilding, REBooting”, ovvero ribellione ai meccanismi tossici, ricostruzione di ambienti lavorativi sani e riavvio di un’industria, quella pubblicitaria, che ha perso in credibilità e fiducia.
“Re:” come la risposta a un’email. “B” come BOLD.
Andiamo oltre alla classica definizione di “vittima”.
“C’era un libro molto interessante che stavo leggendo sull’iPad: Critica della vittima di Daniele Giglioli, un saggio del 2014 sul ruolo politico e culturale della vittima. Mi sembrava adatto al momento, soprattutto perché lo sforzo richiesto per leggere questo testo poteva farmi scoppiare altre vene del cervello, quindi meglio leggerlo vicino a dei neurologi.
Giglioli riporta la riflessione di Philippe Mesnard sul “credo umanitario”, l’insieme delle tecniche comunicative che estetizzano e riducono intere popolazioni a pure vittime.
Riporto da pagina 21: “Più significativo è infatti ciò che questo inquadramento opera sulle vittime stesse, stigmatizzandole in un’identità che le spoglia del tutto o in parte della loro biografia e dei loro riferimenti culturali, oppure ve le rinchiude, privandole di soggettività nonché di ogni diritto che non sia quello al soccorso”.”
da “Poverina” di Chiara Galeazzi
Le segnalazioni di questa settimana.
Molto spesso le pubblicità per il sociale hanno quel tono paternalistico che genera distacco tra chi parla (il saggio, posto su un piano morale e cognitivo superiore) e la persona a cui è destinato il messaggio (lo stupido, di solito giovane). L’ultimo spot sulle droghe non fa eccezione.
Per una volta, invece, qualcosa di totalmente diverso.
Instagram sta provando a rendere più difficile l’invio di dick pic: la condivisione di immagini sarà possibile solo tra utenti che si seguono vicendevolmente.
“Che parola furba si sono inventati i mercanti dei social, condivisione. Come se spezzassero il loro panino burro e marmellata in due. È un verbo cristiano, benintenzionato. Evocativo di qualcosa di buono. Condivido la mia vita con te! Che buon cuore.
Per quanto ne capisco io, col vizio arrogante che mi piacciono solo le parole da venti centesimi, condivisione online della vacanza significa sempre che uno va al mare e un altro no. Tu al massimo puoi mettere un cuore, condividi così.”Dalla newsletter di Ester Viola.
Il prossimo weekend dovrei essere nei pressi di Livorno per la prima dello spettacolo teatrale “Stai zitta”,
non condividerò foto del mare, promesso.
Flavia
Grazie sempre, Flavia.